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Corriere TV - IV puntata sulle carceri - I contatti con i familiari, le telefonate, le stanze per l'intimità. Nella quarta puntata della serie «Voci dal carcere» raccontiamo il diritto all'affettività

Alessanro Trocino, video Christian Franz Tragni / CorriereTv

È la frase che centinaia di detenuti ogni anno avrebbero potuto pronunciare, potendo telefonare all’amata, alla moglie, ai figli, ai genitori. Nel momento più buio, chiusi nella disperazione, avrebbero potuto trovare conforto in una voce che magari sarebbe riuscita a calmarli. Il calore di un affetto, la vicinanza di una persona cara, avrebbe potuto dissuaderli. Ma nelle celle italiane non ci sono i telefoni. Non si può neanche chiedere agli agenti di chiamare qualcuno. Bisogna aspettare. Aspettare quei dieci minuti alla settimana che il regolamento gli assegna. La morte, però, non aspetta. Come nel caso di Bassem Degachi. Rinchiuso nel carcere di Venezia, il 6 giugno dello scorso anno, riceve la notifica di un ordine di custodia. Quella mattina riesce a chiamare più volte la moglie al telefono, per pochi secondi. Alle 11.32, nell’ultima telefonata pronuncia quella frase: «Amore scusa se ti abbandono. Mi faccio la corda». Poi mette giù. Lei è disperata, ma non può richiamarlo. Nessuno può chiamare un detenuto in cella. Avvisa il carcere. Sconta la trafila burocratica dei centralini, della portineria. Chiama tre volte. Urla, si dispera, chiede aiuto. Dal carcere la rassicurano. Lei implora: fatemi parlare con lui, si vuole uccidere. Loro insistono: non si preoccupi, è tutto a posto. Alle 13.50 l’avvisano. Bassem si è impiccato.

​Le regole per i colloqui telefonici in carcere sono state varate quando c’era ancora il telefono fisso, i gettoni, la Sip, le cabine. Il telefono per le persone in libertà era ancora un accessorio come un altro, usato con parsimonia. Non si viveva iperconnessi con gli smartphone, come oggi. I detenuti, invece, allora come oggi possono chiamare un familiare o un amico per un tempo massimo di dieci minuti alla settimana, frazionabili. I direttori degli istituti hanno la facoltà di aumentare questo lasso di tempo, come è stato fatto durante il Covid. Ma ora, quasi ovunque, si è tornati ai dieci minuti regolamentari. Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, docente di filosofia e sociologia del diritto, racconta: «Ricordo 20 anni fa che in Argentina c’era una sala dove i telefoni erano su un tavolo e chiunque poteva usarli in qualunque momento. Come succede nella serie americana Orange is the new black. Dal 2018 in Francia, su disposizione di Macron, i detenuti hanno un telefono fisso dal quale possono chiamare quattro numeri registrati, in ogni momento del giorno e della notte». Così accade anche in Spagna.
Racconta don Davide Maria Riboldi, cappellano a Busto Arsizio: «Siamo l’unico Paese in cui per telefonare i detenuti devono fornire una copia del documento che attesta il rapporto di parentela e una copia del contratto telefonico intestato alla persona che si vuole chiamare. C’erano due detenuti qui a Busto che sono stati trasferiti in istituti stranieri, uno in Belgio, uno a Londra. Da lì mi potevano chiamare quando volevano».
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in una delle sue (per la verità non frequentissime) esternazioni sul tema suicidi, ha promesso che avrebbe consentito un aumento delle chiamate. Due donne si erano tolte la vita, in quell’ottobre del 2023. Com’è andata poi? Anastasia: «Per un anno non è successo niente. Nel giugno del 2024 è stato varato il decreto carcere ed entro sei mesi doveva arrivare il regolamento». Non serve andare avanti: si sarà capito che il regolamento non è mai stato emanato e che tutto è rimasto come prima (nel frattempo dal gennaio 2024 a oggi ci sono stati più di 120 suicidi).
Don Davide non si capacita: «La politica si riempie sempre la bocca con la parola famiglia, poi permettono questa vergogna. Quale speranza può coltivare un detenuto, se non quella per la propria famiglia? Se ti muore qualcuno, vuoi sapere cos’è successo, fare le condoglianze subito, non dopo una settimana. Se tua figlia compie cinque anni, le vuoi fare gli auguri quel giorno. Se tuo figlio fa la maturità, lo vuoi sentire subito». Ci sono casi che gli sono rimasti impressi: «Come quel detenuto ucraino, incarcerato per un reato che aveva commesso 20 anni prima. Era appena scoppiata la guerra e stava chiamando il figlio, quando è suonata la sirena antiaerea. Secondo il regolamento avrebbe dovuto aspettare una settimana per sapere se era vivo. Quella volta sono intervenuto io, ma è stato un caso».

In qualche istituto è consentito fare le videochiamate con il cellulare. Ma non sono considerate telefonate normali: sono equiparate ai colloqui in presenza. Di quelli ne sono previsti sei al mese, di un’ora ciascuno. Si fanno in stanzoni grandi e caotici, dove per sentirsi bisogna urlare, rendendo ancora più difficile il colloquio per gli altri. Ci sono tavoli con due o tre sedie, fissate a terra. Nel 2020 sono stati aboliti i vetri divisori. Ci si può tenere la mano. Se si va oltre nelle effusioni, intervengono gli agenti. ​

A proposito di effusioni, la Corte costituzionale (sempre più supplente di una politica assente) nel 2024 ha dichiarato incostituzionale il divieto di colloqui intimi senza controllo a vista per i detenuti. Aprendo la strada al cosiddetto «diritto all’affettività». La maggior parte degli ordinamenti stranieri riconosce spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità. A distanza di oltre un anno cos’è successo? Lo ha spiegato lo stesso ministro ad aprile, rispondendo a un’interrogazione: “Su 189 istituti penitenziari solo 32 hanno confermato allo stato l’esistenza di uno spazio idoneo alla affettività dei detenuti, previa attuazione di ingenti e corposi interventi strutturali. Gli altri 157 istituti hanno dichiarato di non avere a disposizione spazi adeguati”. In pratica, la sentenza non ha trovato attuazione. Perché? Risponde Anastasia: «La ricerca dell’ottimo, che è nemico del bene. La sentenza non richiede la creazione di stanze con letti matrimoniali e luce soffuse. Basta una stanza qualunque, dove non entrino gli agenti. A Rebibbia c’è la casetta rossa disegnata da Renzo Piano per le detenute. Solo che è stata fatta prima della sentenza e ci sono vetri trasparenti. Ho detto: basta mettere due tende. Ma niente, resta lì, inutilizzata».
Cosa impedisce di realizzare la sentenza, in sostanza? Mancanza di soldi? Di personale? «No - dice Anastasia - lo impedisce un’idea afflittiva della pena. I detenuti non devono essere come noi, si pensa. Devono stare male, devono soffrire». In teoria l’unica afflizione dovrebbe essere la privazione della libertà, e sarebbe più che sufficiente. «E invece c’è chi gode nel farli stare male il più possibile - dice Don Davide - Un luogo per l’intimità non è da intendere meramente come sessuale, che pure è un capitolo da prendere in considerazione. Non si tratta di consentire solo uno sfogo ormonale, ma anche, per citare De Andrè, di sentirsi dire «micio bello» e «bamboccione». Un posto dove essere giocosi, scherzare, almeno per un’ora, per ritrovare un rapporto di complicità con i propri cari».
Però qualcosa si può fare. A febbraio il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha accolto il reclamo di un detenuto di Terni, recluso nel circuito di Alta Sicurezza, ordinando all’amministrazione penitenziaria di consentirgli entro sei mesi colloqui intimi con la compagna convivente, senza controllo a vista del personale. E così è stato. L’istituto di Terni ha attrezzato una stanza al piano terra, vicino alle sale colloqui. I detenuti l’hanno sistemata e imbiancata e hanno realizzato una doccia e il bagno. Nella stanza c’è un letto matrimoniale con due brande e un materasso unico. Un tavolino, due sedie, una televisione. Un detenuto ha disegnato sul muro una serie di cuori, dei cigni. E sopra, una grande scritta: “Ti amo”

Qui tutte le puntate di «Voci dal carcere»​

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