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Dopo la notizia sulla struttura vuota usata come rifugio per i randagi, la penitenziaria ha avviato un’indagine interna. Le immagini di sorveglianza usate contro una dipendente. Le accuse poi archiviate.
www.editorialedomani.it

C’è un carcere vuoto, diventato un canile, dove il personale si preoccupa di curare gli amici a quattro zampe in assenza di detenuti. È quanto accaduto nell’istituto di pena costruito all’interno del centro per migranti di Gjader, in Albania. E di questo fallimento Domani si è già occupato rivelando l’arrivo degli animali nella struttura deserta a causa del piano di deportazione bloccato dalle sentenze del tribunale sui richiedenti asilo trasferiti lì dopo il soccorso in mare.

Ora emerge anche altro. Nei giorni successivi alla pubblicazione della notizia del carcerecanile, i vertici della penitenziaria di quell’istituto si sono messi a spulciare le immagini del sistema di videosorveglianza. Ma soprattutto hanno visionato a fini disciplinari i fotogrammi con le inquadrature dello schermo dello smartphone personale di una dipendente. La notizia, che Domani può rivelare, emerge dal carteggio tra il sindacato Uilpa e il ministero della Giustizia, che aveva come oggetto proprio l’impianto di videosorveglianza, ma partiamo dalla richiesta del sindacalista Gennarino De Fazio.

Il segreto sul regolamento
A metà febbraio, il segretario del sindacato degli agenti aveva chiesto copia del regolamento per la disciplina del sistema di video-sorveglianza del carcere albanese, la data di emanazione e «copia del provvedimento con cui sono stati nominati il responsabile e gli incaricati del trattamento, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia». Lo aveva fatto utilizzando lo strumento dell’accesso civico che consente anche a privati cittadini di chiedere atti e documenti alla pubblica amministrazione.

Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, però, ha respinto la richiesta con questa formula: «Documenti inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali».
Il dipartimento ha eccepito la segretezza citando il decreto 115 del 1996 che disciplina i documenti del ministero sottratti al diritto di accesso, una disciplina applicabile anche all’accesso civico generalizzato (il cosiddetto Foia) secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la direttrice del carcere di Gjader, Silvana Salani. Nei mesi scorsi il dirigente del nucleo di polizia penitenziaria del carcere albanese era Riccardo Secci, ora è tornato in Italia.

Dopo il primo diniego, il sindacalista ha fatto ricorso al responsabile anticorruzione del ministero della Giustizia, Giuseppe Fichera, ma
l’esito è stato lo stesso. «In sostanza, anche dopo l’entrata in vigore delle norme sull’accesso civico generalizzato permane un settore “a limitata accessibilità” se è vero che è consentito a chiunque di conoscere ogni tipo di documento o di dato detenuto dalla pubblica amministrazione, nello stesso tempo, qualora la tipologia di dato o di documento non può essere resa nota per il pericolo che ne provocherebbe la conoscenza indiscriminata, l’ostensione di quel dato e documento può essere consentita solo in favore di una ristretta cerchia di interessati», si legge nella seconda bocciatura.

Proprio nel ricorso, poi respinto, il segretario della Uil scrive in un passaggio: «Si è avuta contezza che in almeno un caso il Dirigente del Nucleo di Polizia penitenziaria di stanza presso la struttura penitenziaria Gjadër è stato autorizzato dal Direttore ad accedere alle immagini videoregistrate dal sistema di videosorveglianza e, il medesimo, ha visionato, estratto e utilizzato a fini disciplinari anche fotogrammi riprendenti lo schermo dello smartphone personale di una dipendente». In pratica è stato aperto un procedimento disciplinare, nelle cui pieghe c’è stata la visione e monitoraggio della schermata del cellulare di una poliziotta penitenziaria.

I fotogrammi contestati
La cronologia degli eventi è chiara: gli accertamenti arrivano dopo le prime rivelazioni sul carcere trasformato in canile. Per scoprire la talpa sono state visionate le immagini riprese dall’impianto di videosorveglianza.
Gli allora vertici dell’istituto penitenziario albanese spiegano a Domani che non possono parlare con i giornalisti, ma che, in questi giorni, è stata «vomitata cattiveria: fatevi qualche scrupolo». Ma è vero o no che sono stati visionati i fotogrammi riprendenti lo
schermo dello smartphone personale di una dipendente? «No, l’utilizzo delle telecamere è solo per ragioni di sicurezza, non c’è altro uso».

Così abbiamo chiesto una conferma a De Fazio, visto che è stato il sindacalista a riportare quel passaggio nel suo ricorso. «Io non so riferire le ragioni della visione di quei fotogrammi, anche perché non vogliono farmi leggere il regolamento della videosorveglianza, ma posso confermare senza tema di smentita che i fotogrammi, anche riprendenti lo smartphone personale, sono stati utilizzati in un procedimento disciplinare che peraltro il Dap, in maniera molto corretta e lineare, ha archiviato».

In pratica il carcere è inutilizzato, per qualche tempo è diventato un canile, il fallimento è evidente, ma il ministero si preoccupa di capire da dove arrivano le notizie secretando regolamento e responsabili dell’impianto di videosorveglianza.
Sull’Albania, oltre al fallimento, lo spreco di denaro, è calato anche il sipario sulla trasparenza.

 

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